sabato 17 marzo 2012

Verde a metà


Pavimenti sbiaditi con geometrie perfette per le nostre liti inferiori

buste stese a ricordarci che siam noi, lasciarsi andare

domandandosi dove sia quel giorno

il giorno più verde che c’è

forse abbandonato in un ricordo assolato d’infanzia

un ricordo distratto

e non ricordarsi il modo per tornarci

il ponte demolito, gli alberi abbattuti

la terra arsa e le fabbriche solitarie.

E pensare di incontrarsi di notte in un letto

e svegliarsi sapendo che è stato un incontro addormentato

più che una corrispondenza biunivoca

di frecce e sguardi e luci di parole.

Le macchine parcheggiate male

davanti alle palestre simili a baratri

luoghi di perdizione dei freddi resti di buon senso.

Tornare indietro a cancellar momenti

a cambiar le situazioni e gli incontri casuali

per scoprire che i pezzi non combaciano

e capire com’è tutto collegato

assurdamente intrecciato a salire

verso il giorno più verde che c’è

che forse c’è già stato

e in quel caso piangere

sui pavimenti sotto gli arazzi

i miei singhiozzi per voi e per me.

Ho un occhio gonfio e non so perché.

E rialzarsi e fumare

sui balconi oscurati da foglie d’incenso immaginarie

le nostre domeniche distrutte dai mal di testa.

E le ferite interiori che bruciano con l’alcol

che bruciano con l’erba.

Assumiamo in droghe i nostri giorni peggiori

ripetutamente scappando

e tornando inferociti a batterci.

Attaccami con dolcezza.

Torna, parliamo,

non te ne andare.

Forse ora capisco che non sei mai arrivato.

La devastazione delle nostre camere

la gente che dorme nei nostri letti

gente intercambiabile

come l’aria in casa o in ufficio.

E vivere di libertà

e spezzare i legami

ed evadere di prigione

per fuggire nei boschi finlandesi

e sulle colline di Lepricani;

forse era quello il giorno più verde che c’è

e noi l’abbiam squartato e divorato.

Anche se tutto aleggia

con il cool jazz nella mia mente

così precisamente calcolato,

atti di premeditazione sentimentale,

anche se è tutto in disordine ora

c’è una sottospecie di ordine interiore

e pace dei sensi

ed apatia

e sangue e speranze solo momentaneamente abbandonate.

Lanciarti i miei segnali chimici attraverso un’indifferenza metallica.

Possiamo andare e tornare

e fare come se nulla fosse mai accaduto mai mai mai mai.

martedì 6 marzo 2012

Le città sommerse




Città che ho scelto di dimenticare;

è un gran peccato.

Città medievali con Mc Donald per amanti frettolosi:

quelli eravamo noi

che ci guardavamo

e ci promettevamo di ascoltarci

per non dimenticare in fondo ad una storia

la nostra individualità originariamente androgina,

per conservare intatte le sensazioni primordiali

e le motivazioni che ci spinsero in un letto sfatto

prima ancora di toccarci

e rovinare la nostra divinità con parole sfacciatamente umane.

Quelli eravamo noi

che ci promettevamo

di far galoppare i nostri sogni all’unisono

senza innalzare subdoli ostacoli

per poi ricondurli realizzati al maneggio,

tenendoci per mano

e facendo battere le nostre ciglia insieme a quelle dell’altro

così da vedere gli stessi pezzi di mondo

e lasciare all’universo ciò che l’altro non poteva vedere.

Quelli eravamo noi

e già oggi siam diversi

e corriamo in gare differenti

e già non pensiamo più a noi

mentre moriamo in vite divergenti.

Ed io che penso tristemente

all’espressione che avevi con me

chiedendomi se sia diversa ora

e già forse pensi ad altro,

abbandonando i nostri ricordi

sull’argine prosciugato del fiume

rendendoli carne da avvoltoi,

ma una carne povera

che non può attrarre nessuno

se non i vermi nudi,

mentre una donna in nero

ti sussurra, per non urlarlo,

“Ti prego, non farlo.

Non tornare, non farlo”.