martedì 31 gennaio 2012

La teoria dell'eterno ritorno applicata a fatti di marginale importanza.

Ieri mattina ho sceso le scale.

Ho sceso le scale dell’appartamento del mio nuovo palazzo, nella mia nuova città.

Ho sceso le scale e, in fondo alla strada, c’eri tu che mi aspettavi.

Non è che io sia scappata, ma non mi va di trovare pezzi del passato nella mia nuova vita.

Avrei tanto voluto rimanere impassibile, come si fa a rimanere impassibili, ad indossare la maschera dell’indifferenza?


Mi hai detto che dovremmo parlare. Di nuovo. Ti ho risposto che per me ci eravamo già detti tutto, pensa un po’. Poi ti ho chiesto chi ti avesse dato il mio nuovo indirizzo. Ti ho chiesto perché fossi venuto di persona, attraversando l’Italia a mezzanotte, invece di scrivermi una lettera, che fa tanto romantico, e poi sarebbe stata più carina perché avrebbe evitato il contatto visivo che mi scombussola ancora l’organismo e avrei sempre potuto conservarla in fondo ad un cassetto e rileggerla quando avrei avuto nostalgia di noi. Poi mi sono chiesta perché continuo a ritrovare pezzi della mia vita nei libri, delle situazioni del mio passato con le stesse identiche modalità, con le stesse parole, assurdamente. E’ terribile, è come se avessero violato la tua privacy, avessero preso la tua storia e l’avessero messa sotto gli occhi del modo, a tua insaputa, senza il tuo consenso, senza neanche ringraziarti per l’ispirazione, senza neanche ringraziarti per gli incassi. E se andassi al cinema, probabilmente, rivivrei la mia vita proiettata su uno schermo, come accade al protagonista di qualche stupido film che ho visto e di cui non ricordo il nome.

Dicevo, ti ho chiesto come avessi avuto il mio indirizzo. Mi hai risposto che non importa. Mi hai risposto che rivuoi il passato, che eri confuso. Bella mossa. Bella scusa, la confusione. Mi chiedo perché io non lo sono mai. O meglio, lo sono, ma in ogni istante della mia vita so chi amo, cosa sto facendo, cosa voglio, dove mi sto dirigendo. In ogni istante della mia vita. E tu eri vivido e reale davanti a me, ti sei interposto tra passato e futuro, in un momento imprecisato del mio presente turbolento e disperato.

E in mezzo al frastuono entropico della città, davanti al mio bus che sta partendo, mi dici che rivuoi proprio me. Che potremmo espletare insieme le nostre funzioni emozionali. Ad intervalli di un’ora, magari, per non arrivare a metà giornata devastati. Accusandoci di essere rimodellabili, ma facendoci dono dell’incredibile potere di cambiarci. I nostri pensieri di creta, le nostre mani di marzapane. Gli strumenti che non hai imparato a suonare, le lingue che non so ancora parlare. Le situazioni ideali, i sogni dell’inconscio che non abbiamo ancora imparato a discernere dal reale. La mia peggiore paura. I tuoi ritorni strappalacrime che mi strappano parole che avevo giurato di non scriverti più. La mia decisione masochista, il divieto arbitrario di tornare indietro.

Il tuo nome sui miei quaderni. E che il mio sia un veleno per te.
Ma i miei anticorpi hanno imparato a riconoscerti, la mia risposta è puramente immunitaria.
Addio.

PS Non è che non trovi il coraggio di dirtelo a voce. Dietro il mio comportamento non si nasconde vigliaccheria. Dietro il tuo, forse.