venerdì 18 novembre 2011

Novembre, un anno dopo.




Novembre sembra portare via quei piccoli pezzetti di serenità che immagazzini durante l’anno. Nelle foglie che cadono, nei bus stracolmi, nei jeans gelati-che dimentico sempre di mettere i leggins sotto -sembra nascondersi un segreto, ma neanche poi tanto segreto, messaggio di morte. Il comune fallimento, il caos imperante, dicevo mesi fa. Lo dicevo da illusa e dirlo ora, che sono diventata la personificazione del pessimismo cronico, fa un po’ più male. Perché è un po’ più crudo. Perché sa un po’ più di verità. Non so come, oggi ho pianto un sacco in bagno invece di studiare ed è strano perché credevo davvero di aver superato tutto. E’ che ho il brutto vizio di rileggere le mie poesie e mi è capitata sotto gli occhi la prima poesia che ti ho scritto in autobus, mentre attraversavo l’Italia con gli occhi rossi di tre notti di sonno arretrato. Tre notti passate a liquefarsi in un letto, nel freddo di inizio marzo. E gli occhi si sono trasformati in quelle piscine abbandonate in cui sguazzano le rane, quasi stagni, quasi come se avessi della carta stagnola nelle pupille. Quasi come se tu avessi della carta stagnola come un isolante attorno al cuore. E’ che mi guardo allo specchio e mi sento figa e poi mi guardo nello specchio degli occhi della gente e mi sento anormale, come se avessi la SARS o qualcosa del genere. Forse, se avessi guardato nello specchio dei tuoi occhi, avrei capito che anche tu mi vedevi come un’infezione quasi mortale, qualcosa da cui fuggire prima che ti corroda, tipo soda caustica. Ma ero troppo impegnata a guardare il mio riflesso, come al solito, e non ho visto né questo, né te. Poi, in qualche modo, è come se mi avessi voluto solo scopare, anche se lo so che non è così, o perlomeno non era così all’inizio. All’inizio, vale a dire quasi un anno fa. Se ti incontrassi ora ti fracasserei la testa nella fontana in Piazza Maggiore, credo, perché ci starebbe bene un po’ di rosso lì. Il rosso almeno sui monumenti, dato che Bologna è meno di rossa di quanto pensassi. Dato che bere qui è come bere ad Helsinki, a Praga, a Dublino e in tutti gli altri posti in cui ho bevuto. Anzi no, bere a Dublino era un po’ come bere a casa. Qui è come autoinfliggerti un men.

In realtà, sono un po’ frustrata perché sta per cadere la mia teoria della ciclicità delle storie d’amore, dato che è novembre e sono in cucina a bere caffè. Poi, è anche vero che lo scorso novembre era lo stesso e anche peggio, visto che ho letteralmente rischiato la vita, annegandola tra bottiglie di superacolici. Era anche peggio, ma poi ho incontrato te e a quel punto era quasi perfetto, ma una camelia che ha raggiunto la perfezione deve necessariamente sprofondare nel baratro del peccato, ho scritto una volta. L’orologio palpita ed io spreco il mio tempo a pensare alla monotonia delle tue giornate e dei tuoi pensieri e agli sbattimenti tra treni e valigie per vederci, se stessimo ancora insieme. Agli sbattimenti passati e a quelli che non ci saranno perché ormai si è deciso così. Che siamo diversi, che siamo agli antipodi. Quando ci sfidavamo a duello dai nostri punti vista diametralmente opposti. Ma ora posso stare in pigiama a fumare e bere rum, incollata a ricordi asettici, incollata a parole sgualcite e promesse messe per iscritto, con tanto di firma in calce, sulla prima pagina di un libro di poesie nel bagagliaio dell'auto di tua madre, e spalancare la finestra ed urlare perché tanto non mi sentirai. Perché è novembre e non c'è nessuno in ascolto.